Ci sono scrittori che interpretano perfettamente un luogo, rurale o urbano che sia, e lo fanno con la naturalezza di chi conosce intimamente. La loro scrittura è abitata o piuttosto incarnata dal luogo di cui scrivono, come due entità distinte fatte di materia differente, che si possono specchiare senza del tutto identificarsi, altrimenti non esisterebbero più nella loro singolarità e carattere, e diventerebbero uno. Così le Langhe e Pavese, per esempio. O Lisbona e Pessoa. Esempi celebri.
Ci sono paesaggi più ritrosi, meno noti, che stanno ai margini e se ne compiacciono, in bilico tra inconsapevolezza e snobismo. Di questi paesaggi, che son quelli della mia infanzia, uno scrittore ha saputo raccontare senza averne l'aria, con la stessa distanza un po' altera, elegante ma asciutta, tipica dei luoghi: Elio Bartolini.
Prati, strade di sassi polverose, rive ombrose di fossi e corsi d'acqua. E poi, addossata ad un borgo o a chiudere un fondale largo e spianato, ecco una villa. O ciò che rimane.
Villa Kechler, Villa Colloredo, ville che punteggiano una macchia esigua del Medio Friuli. Ognuna di queste ville aristocratiche di campagna ha visto ieri una ricca vita di fatti e passaggi di variegati protagonisti e comparse, un andirivieni incessante e mutevole. Nobil signori e le loro famiglie, ospiti altolocati, scrittori e poeti. Come Napoleone, Pasteur, Hemingway, tanto per citarne qualcuno. E oggi quel lustro antico si sgretola ogni giorno un pochino di più: una cinta che cede definitivamente dopo avere mostrato piano piano i sassi o i mattoni sotto l'intonaco; una torre che si sfa e si crepa e si rimodella al lavorìo di pioggia e vento; un tetto che cede nella foresteria o la barchessa e suggerisce una nuova via ad alberi e arbusti che già l'assediavano dal di fuori.
C'è una bellezza struggente in questa inesorabile e lentissima rovina delle ville friulane, perseguita con l'inevitabilità e la noncuranza di un carattere fiero. Ma non le cambierei affatto. Qualcosa che è finito e non tornerà più a quel modo, tanto vale rendersene conto e accettarlo e amarlo nel suo mutamento, anche se vien detto decadenza. Di caducità non si può mai parlare e ancor meno si può vedere. Così si preferiscono i restauri artificiosi, i cambiamenti di funzione nell'intento di sfruttare luoghi col pretesto di salvarli (resort, ristoranti, alberghi) e si finisce invece con lo snaturare i luoghi, uniformarli e farli morire davvero. Si caccia il genius loci, e questo è un guaio. Per me, come per Elio Bartolini (che abitava, guarda caso il Palassât) Chi abita la villa? La contessina, che cattura i topi tra le sale vuote e sfatte dentro la villa e i terrapieni nel parco inselvatichito per nutrire i nuovi abitanti di diritto, la civetta e la sua prole.
C'è una bellezza struggente in questa inesorabile e lentissima rovina delle ville friulane, perseguita con l'inevitabilità e la noncuranza di un carattere fiero. Ma non le cambierei affatto. Qualcosa che è finito e non tornerà più a quel modo, tanto vale rendersene conto e accettarlo e amarlo nel suo mutamento, anche se vien detto decadenza. Di caducità non si può mai parlare e ancor meno si può vedere. Così si preferiscono i restauri artificiosi, i cambiamenti di funzione nell'intento di sfruttare luoghi col pretesto di salvarli (resort, ristoranti, alberghi) e si finisce invece con lo snaturare i luoghi, uniformarli e farli morire davvero. Si caccia il genius loci, e questo è un guaio. Per me, come per Elio Bartolini (che abitava, guarda caso il Palassât) Chi abita la villa? La contessina, che cattura i topi tra le sale vuote e sfatte dentro la villa e i terrapieni nel parco inselvatichito per nutrire i nuovi abitanti di diritto, la civetta e la sua prole.