venerdì 25 marzo 2016

Passaggio in India


12 anni fa arrivavo ad Ahmedabad, in India del Nord.

Invitata dall’Alliance Française della città, avrei infine realizzato il mio progetto “To approach- A l’approche” al quale lavoravo da qualche mese e che avevo affinato durante un mio soggiorno precedente nella capitale del Gujarat. Un progetto voluto e sostenuto fra gli altri dall’Accademia di Belle Arti indiana e l’Huteseeng Visual Art Center, che mirava allo studio e allo sviluppo del libro illustrato come medium dalle molteplici sfaccettature, un mezzo ed un settore là ancora poco indagati.

Tuttavia per me le implicazioni della missione andavano ben oltre questo obbiettivo, e mi sarei da subito accorta che il vero progetto riguardava addirittura l’accoglienza e il desiderio di conoscenza dell’”Altro da se”.


In francese il termine “Approche “ (in inglese “Approach”) rappresenta un’azione fisica e mentale. Approcciare significa “andare verso”, cioè ridurre le distanze che ci separano da un oggetto, un luogo o un essere umano. L’immagine è dolce, parla di un movimento che si compie senza brutalità, e che asseconda un impulso e un desiderio di conoscenza rispettoso nei confronti dell’oggetto che ispira questo interesse. Vedevo l’immagine di una nave che si avvicina lentamente alle coste di una terra straniera, da scoprire e non da colonizzare, in uno scivolare silenzioso e liquido. E di palloni areostatici, che scendono pian piano dal cielo e toccano terra. L’idea di approccio e di mongolfiera sarebbero diventati il titolo e l’immagine del mio intervento in India.

Immagine e proponimento coi quali stavo per avvicinarmi ad un mondo nuovo, diverso e sconosciuto. Per parlare di un’avventura quotidiana per certi versi simile: quella del lavoro di creazione, in particolare della creazione di un libro illustrato. In effetti, ad ogni nuovo progetto d’albo, ho l’impressione di iniziare una vera e propria avventura, e una nuova scoperta. Lo strumento privilegiato di ricerca è il disegno. Attraverso il mio sguardo e la mia matita, e un approccio insieme curioso e rispettoso, scopro un “Altro da me”. Questo universo straniero, ho il privilegio di interpretarlo e renderlo visibile affinché a loro volta altre persone, spesso dei bambini, possano scoprirlo. Sono un traghettatore. Un traghettatore felice.

Dal mio arrivo ad Ahmedabad intraprendevo dunque un lavoro sia teorico che pratico sul libro illustrato con gli allievi dell’Accademia di Belle Arti. Incontri scanditi da ritmi, rituali, modalità del tutto diversi, ai quali non ero abituata e dei quali dovevo tenere conto. Nessuno aveva ancora parlato a quegli studenti della struttura di un albo illustrato, del lavoro di ripartizione e d’interpretazione di un testo, di ritmi visivi, di grafica significativa. Non avevano l’abitudine di esprimersi e di lavorare in gruppo, di sperimentare nuove tecniche e nuovi modi di disegnare. La valigia di libri che avevo portato con me era diventato il forziere dal quale estraevo tesori che facevano loro spalancare gli occhi. Soprattutto Emanuele Luzzati, Kveta Pacovska, Peter Sìs. Avevo l’impressione di dare delle conoscenze utili, degli strumenti del più grande interesse per questo mestiere, e davvero ero seguita con stupore ed attenzione. Ma a mia volta il mio stupore e la mia attenzione crescevano. Ero davvero io ad insegnare qualcosa? Non ero invece io che stavo imparando? Davanti a me avevo una disposizione silenziosa all’apertura e allo scambio, un’attenzione acuta e impenetrabile, una dolcezza piena di fuoco e fatalismo insieme e un’attitudine molto particolare, che avrei battezzato “ondulata”, ciò che traduce piuttosto bene l’andamento indiano, lento ma continuo. E la diplomazia del loro caratteristico cenno del capo, ondulato anche quello, che acconsente sempre ogni cosa all’ospite pur quando gliela nega, così difficile da interpretare per me all’inizio.


Durante le mie passeggiate solitarie, accompagnata dall’autista indiano dell’Alliance Française, avrei contemporaneamente scoperto un mondo variopinto e cangiante, composto da contrasti inauditi. Nella confusione della città, dove in un flusso continuo andavano motociclette, autobus straripanti di gente, sgangherati taxi neri, moltitudini di persone dedite alle attività più diverse, elefanti, cammelli e scimmie, improvvisamente un tempio buddista sorgeva col suo silenzio, con i suoi profumi inebrianti d’incenso, i gesti e le litanie ipnotici e silenziosi. 


La città vecchia é un mosaico di colori ed odori che sconvolge: vecchie corti dai ballatoi di legno dipinto ed intagliato come una trina, condivise dai due animali più venerati e quelli più disprezzati, mucche e cani. Più in là squillanti templi indu, banchetti di mercanti di spezie, venditori di chai, di carne marezzata ronzante di mosche, di strane verdure che paiono dita tranciate… Uscendo dalla città vecchia, ecco il rigore di Le Corbusieur, la sobrietà elegante ed esatta di Louis Khann, imprevedibili scorci moderni. E poi il caleidoscopio di colori del museo tessile della città, memoria storica della più antica arte della regione, e delle gallerie d'arte deserte in stile coloniale, nascondigli di miniature erotiche dai colori di smalto dove, spesso unico visitatore, l’unico suono era l’eco dei miei passi. 




E ancora il fascino inquietante delle moschee abbandonate sulle rive dei fiumi diventate dimore di uccelli e di una moltitudine di bambini e donne al lavatoio; i pozzi ai villaggi sperduti color polvere sempre attorniati di donne variopinte.



Avrei fatto esperienza della relatività delle cose: del tempo, della sofferenza, di ogni accadimento. I saggi in abito bianco e piedi nudi un passo dopo l’altro, giorno dopo giorno, percorrono enormi distanze. Nei villaggi più nascosti telai rudimentali tessono stoffe ricchissime dal tempo dei Faraoni d’Egitto, tessuti che saranno compiuti solo dopo molti anni di lavoro quotidiano, costante e instancabile. In quello stesso Paese la gente seguiva con fatalismo il rogo spaventoso di un camion di fiammiferi in un’ingorgo autostradale, divampato da una casuale scintilla. Forse la stessa scintilla che poco prima del mio arrivo era scoccata nella città vecchia, e aveva fatto divampare l’odio e trucidare un gruppo di cristiani. L’albergo di lusso della città vantava la migliore colazione all’inglese, con vista sul fiume. Quella stessa vista comprendeva le baraccopoli degli ultimi. E’ così. L’estrema ricchezza fiancheggia l’estrema povertà, forse più con pazienza che naturalezza. Perché tutto questo é ineluttabile.


Al termine del workshop una mostra dei prototipi dei libri realizzati dagli studenti e il mio saluto hanno sancito e chiuso il mio passaggio in India. Il momento è stato solenne, con l’omaggio rituale del saggio Shri Amit Ambalal venuto ad officiare l’evento. Nei progetti dei ragazzi il desiderio del viaggio, della conoscenza, del cambiamento stavano insieme al tributo e all’attaccamento alla tradizione (nella scelta di alcune storie, nelle tecniche). Il viaggio di una foglia che si mette a pensare e scopre di voler partire a conoscere il mondo, stava di fianco alla storia del giovane curioso cui una strana maledizione aveva punito l’intraprendenza. La contraddizione persisteva e dimorava, nell’impulso doppio di desiderio e timore. Ma penso che qualsiasi valutazione sarebbe sbagliata. L’unica considerazione che mi è stata possibile allora, e lo è ancor oggi, è questa: desideravo che ci fossimo intercettati, avvicinati. Per conto mio avevamo dato e ricevuto reciprocamente. Da allora il sentimento del rispetto e dell’avvicinamento, e quello dello scambio, animano tutti i miei interventi, anche in contesti noti e nella mia Europa. In effetti mi capita spesso di ripensare a quel workshop, soprattutto quando trovo in un partecipante un mondo o un approccio alle cose e al lavoro molto diversi dal mio. Allora la lezione indiana mi aiuta, e l’approche diventa possibile.

In seguito quest’esperienza l’ho raccontata un po’ qui, un po’ lì; al Salone del Libro di Saint-Priest, in particolare, invitata nell’autunno del 2004 a presentare il risultato del progetto, ricevendo un’accoglienza calorosa e un interesse inaspettati.




Tutto il consistente lavoro fatto durante e dopo il mio soggiorno indiano, invece, i disegni eseguiti en plein air, i quaderni di viaggio, lo studio fotografico in bianco e nero alla sede dei produttori di cotone di Le Corbusier, le tavole realizzate in seguito in atelier sul tema dell’”Altro da se” ispirato a questa cultura così diversa dalla mia, ebbene tutto questo non è mai stato ancora mostrato. Ma forse un giorno uscirà dal mio atelier, compiuto. Forse mentre legheranno l’ultimo nodo alla stoffa che ho visto iniziare dodici anni fa in un villaggio sperduto del Gujarat.