sabato 7 marzo 2020

Ritratto senza persona

Come si può ritrarre qualcuno senza rappresentare la sua immagine? Senza mostrarla, anche se filtrata o interpretata?

La scorsa estate alla Tate Modern di Londra veniva esposto il progetto di Catherine Opie 700 Nimes Road, insieme di due progetti riuniti Closets and Jewels e 700 Nimes Road, un'intera sala allestita con decine di fotografie per ricostruire il ritratto di una persona molto nota, Elizabeth Taylor. 


In questo insolito ritratto, la persona non viene rappresentata attraverso la sua immagine, ma attraverso le immagini degli spazi e degli oggetti della sua casa di Bel-Air, in California. 


Nel lavoro di Catherine Opie sono le stanze e le cose che le riempiono a raccontare, precisare e definire per somma successiva la persona. Deserte di presenza umana, ma piene degli oggetti che quella presenza umana ha scelto, usato, accumulato, conservato nel corso di una vita. 

Il procedimento usato è quindi controintuitivo: si mettono a fuoco i margini, la cornice,  per definire il centro; si usa uno sguardo indiretto, accidentale, per mirare più acutamente. Il risultato è sorprendente: la ricostruzione della persona ritratta è più profondo e penetrante, più autentico.



Lo sguardo dell'artista sceglie per fotografare le stanze un punto di vista oggettivo, privo di commenti, se così si può dire. Si sofferma poi sui dettagli. A volte sono accumuli seriali di oggetti dello stesso genere, abiti o scarpe, per esempio. 


Altre volte sono zoom su gioielli preziosissimi ma anche carichi di significati affettivi, sui quali l'artista sceglie di posare uno sguardo sfocato. 


A volte l'obbiettivo fotografico si avvicina oltrepassando i limiti della forma (e della riconoscibilità, dunque) degli oggetti, per cogliere visioni macro di dettagli ingigantiti, trame, tessuti e materiali diversi.



Altre volte ancora coglie l'incongruenza e la surrealtà di certe vicinanze d'oggetti, che parlano della fragilità intima della persona, della banalità del quotidiano, l'abbandono stucchevole di certi ninnoli, dello struggimento del vuoto. Penso alla stanza con le tende a sbuffo e la soffice moquette pastello, con il primo piano banale del lavatesta. E più ancora al libretto delle istruzioni del telecomando sorpreso di fianco alle foto di amici e affetti scomparsi, a ninnoli e souvenir comuni.






Gli oggetti parlano di ricordi pregnanti: avvenimenti importanti, legami, episodi tristi, festosi, drammatici, esaltanti, senza scegliere, senza priorità o congruenza. La ricchezza vera e l'opulenza kitch, l'eccezionalità e la banalità si fiancheggiano. Ecco che allora l'essere umano è ricomposto, quasi in filigrana e malgrado il personaggio.





Del volto dell'attrice, uniche immagini presenti, scorgiamo solamente qualche foto poggiata sulle mensole ingombre di cose e la celebre serigrafia di Warhol, ma sulla cui superficie protetta da un vetro, si riflette l'immagine della stessa Opie colta nell'atto di fotografarla.


Il progetto nasce da un incontro fortuito (come racconta la Opie, l'attrice e la fotografa avevano lo stesso commercialista) e riecheggia la serie fotografica Graceland di William Eggleston sulla casa-museo di Elvis Presley a Memphis. Ma quello, appunto, era un museo, un sito-memoriale del cantante già scomparso. Come puntualizza la fotografa in un'intervista, in questo caso invece la casa era ancora abitata da Elizabeth Taylor, nessuno era ancora passato a "ripulirla" degli oggetti comuni e banali del quotidiano nell'intento di farne un mausoleo alla memoria studiato e calcolato.

Per un ulteriore approfondimento, qui di seguito una presentazione del progetto da parte della stessa artista in un video.


Le prime due foto dell'articolo sono mie, le altre sono state prese dal sito del Moca e della galleria Lehmann Maupin, dove la serie completa è stata esposta.